mercoledì 20 marzo 2013

Società cancellate dal registro delle imprese e rapporti processuali pendenti: Cass. Civ. SS.UU. 6070/2013

Cosa accade in sede processuale quando una società che è parte in un giudizio viene cancellata dal registro delle imprese? E' la questione rimessa al vaglio delle Sezioni Unite della Cassazione nell'ambito del giudizio di legittimità che vedeva coinvolta, come controricorrente, una S.p.A., già cessionaria del credito dedotto in lite  ed originariamente vantato da una società di persone (s.a.s.) cancellata dal registro delle imprese in pendenza di lite,  la quale eccepiva che l'impugnazione non poteva essere validamente indirizzata alla società cedente, in quanto da considerarsi estinta sin dalla data di cancellazione dal registro delle imprese. La questione, pertanto, veniva rimessa all'esame delle Sezioni Unite con riferimento alla sorte dei rapporti processuali in cui è parte una società cancellata dal registro delle imprese. 
A partire dalla riforma del diritto societario del 2003, la disciplina posta dall'art. 2495 c.c. riguardo alla cancellazione delle società di capitali stabilisce che quando la società è cancellata dal registro delle imprese e risulta estinta i creditori sociali possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, nonché nei confronti dei liquidatori se il mancato pagamento è dipeso da questi (azionando in quest'ultimo caso una pretesa risarcitoria).
In sostanza, estintasi la società a seguito della cancellazione dal registro delle imprese, si verifica un fenomeno successorio per cui i soci rispondono dei debiti pendenti, salvi i limiti di responsabilità propri del tipo di società cui appartenevano, e sono loro che divengono i nuovi legittimati passivi. La ratio della norma risiede nella necessità di tutelare i creditori sociali, anche in osservanza del diritto di difesa costituzionalmente previsto, per cui le loro pretese creditorie non si estinguono in concomitanza dell'estinzione della società debitrice.
Analogamente può dirsi per le società di persone, sebbene la disciplina sia dettata dall'art. 2312 c.c., quanto alle società in nome collettivo e dall'art. 2324 c.c., quanto alle società in accomandita semplice, per cui anche nei confronti di esse si verifica analogo fenomeno successorio quando la società viene dichiarata estinta in pendenza di giudizio. La differenza con le società di capitali è che l'iscrizione dell'atto di cancellazione delle società di persone nel registro delle imprese ha valore di pubblicità meramente dichiarativa, per cui superabile con la prova del contrario che, in ogni caso, può essere data solo attraverso la dimostrazione che la società abbia continuato ad operare e dunque ad esistere anche dopo la cancellazione dal registro, per cui è passibile di cancellazione della pregressa cancellazione dal registro, ex art. 2191 c.c., e si considera come mai cessata. Pertanto, esclusa tale ipotesi, quando di effettiva estinzione si tratta, anche per le società di persone subentra il sostrato personale rappresentato dai soci, i quali divengono responsabili dei debiti sociali nei confronti dei creditori societari.
Dal punto di vista processuale, il fenomeno successorio si traduce nella necessità di riassumere il giudizio pendente nei confronti dei soci, avendo la società estinta perso la capacità di stare in giudizio, per cui si applica il combinato disposto degli artt. 110 e 299 ss. c.p.c., riguardo alle cause di interruzione e di successiva prosecuzione o riassunzione della causa.
La Corte si pronuncia anche sul caso in cui l'evento estintivo si ponga come problema nel passaggio al grado successivo di giudizio, nel caso in cui è mancata la dichiarazione dell'estinzione o quando essa è intervenuta  in un momento in cui non era più possibile rilevarla nel processo o quando interviene dopo la sentenza e  in pendenza del termine per l'impugnazione. I Giudici rilevano che l'esigenza di stabilità del processo che, eccezionalmente, ha consentito di ottenere una pronuncia nei confronti di un soggetto processuale non più esistente, la cui estinzione non è stata fatta rilevare in giudizio, deve considerarsi limitata al grado di giudizio in cui quell'evento è occorso, per cui nel successivo grado di giudizio l'impugnazione deve essere proposta solo contro i soggetti effettivamente legittimati, non potendosi proporre contro un soggetto che ha perso la capacità di stare in giudizio in conseguenza della sua intervenuta estinzione.

Pertanto, in conseguenza dell'excursus normativo, giurisprudenziale e dottrinario operato, la Cassazione ha espresso i seguenti principi di diritto: "Qualora all'estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno successorio, in virtù del quale: a) le obbligazioni si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, essi fossero o meno illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) si trasferiscono del pari ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti ed i beni non compresi nel bilancio di  liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, né i diritti di credito ancora incerti o illiquidi la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto una attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale) il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato". Inoltre, “La cancellazione volontaria dal registro delle imprese di una società, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società medesima, impedisce che essa possa ammissibilmente agire o essere convenuta in giudizio. Se l’estinzione della società cancellata dal registro intervenga in pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo del processo, disciplinato dagli artt. 299 e segg. c.p.c., con possibile successiva eventuale prosecuzione o riassunzione del medesimo giudizio da parte o nei confronti dei soci. Ove invece l’evento estintivo non sia stato fatto constare nei modi previsti dagli articoli appena citati o si sia verificato quando il farlo constare in quei modi non sarebbe più stato possibile, l’impugnazione della sentenza pronunciata nei riguardi della società deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci succeduti alla società estinta”.

Cass. SS. UU. n. 6070/2013

lunedì 23 luglio 2012

E' legittima la delibera condominiale che impone la turnazione dei posti auto: Cass. Civ. 12485/2012

Con sentenza depositata il 19 luglio scorso, la Cassazione ha sancito la legittimità della delibera assembleare che impone ai condòmini di fare a turno per usufruire dei posti auto condominiali.
Nella specie, si trattava di una decisione adottata da un condominio di 12 unità abitative munito di garage condominiale a 11 posti auto: l'assemblea aveva deliberato che ciascun condomino avesse diritto ad usufruire di un solo posto auto per unità abitativa e che, data la disparità numerica tra condomini e posti auto, si dovesse fare a turno nell'occupazione dei medesimi, lasciando libero il posto al condomino di turno anche qualora questi non vi avesse parcheggiato l'auto nel giorno di spettanza.
Uno dei condomini, tuttavia, aveva impugnato la delibera sulla base di una presunta lesione dei diritti di cui agli artt. 1102 e 1138 c.c. Questi, infatti, sosteneva che, stante il combinato disposto dell'art. 1102 c.c. - che riconosce ai partecipanti alla comunione il diritto di servirsi della cosa comune purché non ne alterino la destinazione e non impediscano agli altri partecipanti di farne uso - e dell'art. 1138 c.c. - che vieta al regolamento condominiale (e quindi anche all'assemblea) di menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti d'acquisto e dalle convenzioni - l'assemblea non poteva limitare il diritto dei condomini ad occupare un posto auto rimasto libero se il condomino di turno ad occuparlo non vi avesse effettivamente parcheggiato l'auto.
La Corte ha rigettato le censure del ricorrente argomentando che l'art. 1102 c.c., nel consentire l'uso intensivo della cosa comune, pone come condizione il rispetto del pari diritto degli altri compartecipanti alla comunione di fare uso del bene stesso. Di conseguenza, la delibera assembleare che aveva statuito di occupare a turno i posti auto e di lasciare libero il posto anche se questo non fosse occupato dal condomino di turno, si conforma al disposto dell'art. 1102. 
Infatti, se la natura di un bene comune è tale da non consentirne il simultaneo godimento da parte di tutti i comproprietari, l'uso comune può realizzarsi o in maniera indiretta oppure mediante avvicendamento, pertanto l'assemblea che abbia deliberato l'uso turnario della cosa per impossibilità di utilizzo simultaneo (posti auto inferiori al numero delle unità abitative) e che abbia escluso l'utilizzazione da parte degli altri condomini dei posti auto eventualmente lasciati liberi dai soggetti che beneficiano del turno, interpreta correttamente la ratio dell'art. 1102 c.c. poiché consente il godimento della cosa comune a tutti i comproprietari e tale godimento, non potendosi realizzare simultaneamente ma solo tramite turnazione, non è compromesso dal meccanismo del turno, grazie al quale, piuttosto, ogni comproprietario ha l'esclusività del potere di disposizione della cosa senza che altri compartecipi interferiscano con mezzi e strumenti che facciano venir meno l'avvicendamento nel godimento o inducano all'incertezza del suo avverarsi.
Per le stesse ragioni, non essendo la delibera assembleare lesiva dei diritti dei comproprietari, non si ravvisa alcuna menomazione dei diritti di ciascun condomino, per cui non vi è alcuna violazione ai sensi dell'art. 1138 c.c., atteso che la finalità della delibera non è quella di impedire il godimento individuale di un bene comune, bensì quella di impedire che un uso intensivo del bene comune da parte di singoli condomini possa menomare il medesimo diritto a godere del bene comune degli altri comproprietari.

venerdì 11 maggio 2012

I blog non sono un prodotto editoriale e quindi non sono stampa clandestina

Con sentenza emessa il 10 maggio 2012, la III Sezione della Corte di Cassazione ha decretato la salvezza degli innumerevoli blog a rischio chiusura enunciando il principio secondo cui i blog non sono un prodotto editoriale, per cui non devono essere registrati presso il tribunale competente, come prevede la legge sulla stampa e per questo motivo non possono essere considerati stampa clandestina in virtù della mancata (e non dovuta) registrazione.
La pronuncia pone la parola fine ad una disputa durata alcuni anni sulla natura dei blog, originata dal caso delle vicende processuali di un blogger siciliano, condannato in primo grado ed in appello per i reati di stampa clandestina e diffamazione a mezzo stampa.  
La tesi accusatoria, sposata dal giudice di prime cure, era che il blog in questione dovesse essere considerato una testata giornalistica per la natura dei suoi contenuti, pertanto equiparabile ad un giornale cartaceo e, come tale, soggetto agli obblighi previsti dalla legge sulla stampa (L.47/48), dovendosi dotare di un direttore responsabile e procedere alla registrazione presso il Tribunale. Verdetto confermato in grado d'appello.
La difesa del blogger davanti ai giudici di legittimità ha evidenziato la non assimilabilità del blog alla testata giornalistica, sia per una questione di ordine pratico dovuta alla necessità, qualora fosse corretta la tesi accusatoria, di procedere alla registrazione presso il tribunale dei loro blog da parte delle migliaia di utenti della rete che usano questo mezzo di comunicazione, sia perchè il blog non rientra nella definizione di prodotto editoriale così come contemplata dalla vigente legge sull'editoria (L. 62/2001). Infatti, il difensore del blogger ha avuto conferma diretta dal relatore della suddetta legge che i blog non rientrano nella nozione di prodotto editoriale, come tale soggetto alle disposizioni della legge sulla stampa, come risulta chiaramente dalla relazione preparatoria alla medesima legge n.62, per cui la ratio interpretativa della norma risiede nella necessità di aderire alla prescrizione normativa che non considera i blog un prodotto editoriale e per questo non li assoggetta all'obbligo di registrazione presso il tribunale, vigente per le testate giornalistiche, né, per tale verso li considera stampa clandestina. 
La libertà di espressione sul web è salva!


lunedì 12 marzo 2012

Cass. Civ., III Sez., 9 marzo 2012 n.3731: il meccanico è tenuto a risarcire il cliente per il furto dell'auto lasciata nella sua officina

Obbligo di risarcimento a carico del meccanico se nella sua officina viene rubata l'auto di un cliente.
E' quanto sancisce la Cassazione annullando (parzialmente) con rinvio una sentenza della Corte di Appello di Bari. 
Nei fatti, in primo ed in secondo grado, il meccanico era stato condannato al risarcimento per omesso dovere di custodia e la Corte di Appello aveva ritenuto inadeguate le misure di sicurezza, stante l'assenza di impianto di antifurto o di radio allarme.
Nei motivi di impugnazione in Cassazione, il ricorrente aveva imputato al giudice del gravame di non aver tenuto in considerazione i rilievi atti a mostrare le misure di sicurezza impiegate nell'officina, né di aver considerato il fatto che il locale si trovasse al piano terra di un condominio nel quale non si erano mai verificati furti. Sosteneva, pertanto, che la decisione della Corte di far valere la responsabilità per omesso dovere di custodia, a causa dell'inadeguata condotta di prevenzione del furto, segnatamente per l'assenza di impianto antifurto, fosse arbitraria e andasse censurata poichè l'obbligato è esonerato da tale responsabilità quando dimostra di aver agito con la diligenza del buon padre di famiglia e di aver posto in essere tutte le misure idonee a prevenire il furto.
Sul punto, la Suprema ha rigettato le censure del meccanico, argomentando che non può formare oggetto del sindacato di legittimità la valutazione in merito della Corte d'Appello, se essa è congruamente motivata ed è immune da vizi logici e giuridici: non è compito della Cassazione censurare le scelte decisionali delle Corti di merito sugli accertamenti in fatto, poiché essa può sindacare solo sulla correttezza del ragionamento in base al quale sono state fatte quelle scelte.
Soltanto in ordine alla quantificazione dei danni, la Cassazione ha ritenuto fondata la doglianza del meccanico, statuendo che la Corte di Appello di Bari, nuovamente investita della decisione, dovrà decidere il motivo di appello riguardante la verifica della corrispondenza della somma liquidata alla reale entità dei danni subiti, stante la mancata pronuncia in merito, rispetto a tale questione.

mercoledì 22 febbraio 2012

Cass. Pen., III sez., sent. 22/02/2012 n.7039: in materia di IVA è necessaria la falsità soggettiva ed oggettiva delle fatture per potersi configurare il reato di dichiarazione fiscale fraudolenta

La Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, con sentenza n.7039 depositata in data odierna, ha sancito il principio per cui, in materia di imposte indirette, si configura il reato di dichiarazione fraudolenta ex art. 2 d.lgs. 74/2000 solo se le operazioni figuranti nelle fatture siano soggettivamente ed oggettivamente inesistenti.
Nella fattispecie, la Suprema ha annullato con rinvio la sentenza del Tribunale di Savona che aveva respinto la richiesta di riesame di un sequestro preventivo per equivalente ai danni di un contribuente indagato per il reato di cui all'art. 2 del d.lgs. 74/2000. La Corte, infatti, esaminate le censure del ricorrente che aveva dedotto violazione di legge e difetto di motivazione del provvedimento impugnato, ha stabilito che il Tribunale del Riesame, pur nei limiti attribuiti dall'ordinamento alla sua cognizione, deve comunque esercitare un controllo non puramente formale di legalità, per cui deve tenere in considerazione sia le allegazioni della Pubblica Accusa che le contestazioni difensive, accertando la congruità degli elementi rappresentati a sostenere la provvisoria imputazione. Nel caso specifico, invece, le difese del contribuente non sono state adeguatamente valutate, poiché il Tribunale adito non ha tenuto in considerazione il fatto che le fatture de quibus erano solo soggettivamente inesistenti, come ammesso dall'indagato, il quale aveva ricevuto fatturazione da un soggetto diverso da quello che aveva effettivamente eseguito la prestazione, ma non anche oggettivamente inesistenti in quanto i costi fatturati erano stati realmente sostenuti, per cui non vi era stato alcun profitto del quale il contribuente aveva usufruito. Tale elemento, secondo gli Ermellini, non poteva essere trascurato dall'organo del riesame, atteso che nei fatti non vi era stata alcuna evasione di imposta, per cui correttamente è stato incardinato il giudizio di legittimità ai sensi dell'art. 325 c.p.p., stante il difetto di motivazione del giudice del riesame.
La Corte, citando se stessa con riferimento alla sentenza n. 10394/2010, ha chiarito che il delitto di cui all'art. 2 d.lgs. 74/2000 è integrato, per ciò che riguarda le imposte dirette, dalla sola inesistenza oggettiva delle operazioni figuranti in fattura (ovvero quando vi è diversità totale o parziale tra costi indicati e sostenuti), mentre per ciò che riguarda le imposte indirette (iva), occorre che vi sia inesistenza oggettiva e soggettiva insieme.

giovedì 2 febbraio 2012

Tribunale di Cosenza, ordinanza del 1° febbraio 2012: sollevata questione di legittimità costituzionale sull'abrogazione delle tariffe professionali

"IL TRIBUNALE DI COSENZA
Proc. n. 5299/2011 Ruolo gen.
in persona del dott. Giuseppe Greco
ha pronunciato la seguente
o r d i n a n z a
nel procedimento ex art. 700 cod.proc.civ. vertente tra:
Società in accomandita semplice “R. Hotel”, in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata in Bisignano al viale Roma n. 11 presso lo studio degli avvocati Paola Calabria ed Emiliano Calabria dai quali è rappresentata e difesa giusta procura a margine del ricorso,
- ricorrente,
e
Società per azioni E.N.E.L. Servizio Elettrico, in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata in Cosenza alla via E. Tarantelli n. 31 presso lo studio dell’avvocato Francesco Perugini dal quale è rappresentata e difesa in forza di procura in calce alla memoria difensiva,
- resistente.
***
Premesso
che in data ventisette dicembre duemilaundici il sottoscritto giudice, dopo aver assunto sommarie informazioni testimoniali, ha adottato ai sensi del capoverso dell’art. 669-sexies, il seguente decreto:
“Letto il ricorso presentato dalla società in accomandita semplice R. Hotel, rappresentata e difesa dagli avv.ti Paola Calabria ed Emiliano Calabria in data ventitré dicembre duemilaundici; - esaminata la produzione allegata al ricorso; - assunte sommarie informazioni; visti gli artt. 700 e 669-bis e seguenti cod.proc.civ.; - osserva: - la S.p.a. Enel Servizio Elettrico ha disattivato, in data ventidue dicembre duemilaundici, la fornitura di energia somministrata alla società ricorrente presso una struttura alberghiera dalla stessa gestita in Cosenza alla via delle Madaglie d’oro sul presupposto che la beneficiaria della somminsitrazione sia rimasta inadempiente nel pagamento di quattro fatture emesse tutte in data cinque aprile duemilaundici dell’importo complessivo di € 46.981,59; - l’importo delle suddette fatture - e dei relativi consumi - è stato determinato dal fornitore di energia presuntivamente in relazione al periodo due febbraio duemilaotto/nove dicembre duemiladieci ovvero dal momento della installazione dell’apprecchio di misurazione, risultato guasto, al giorno della sua sostituzione; - la determinazione presuntiva del consumo è stata compiuta “tenedo conto della media dei consumi giornalieri tenuta dalla cliente successivamente” alla sostituzione dell’apparecchio di misurazione; - siffatta determinazione, alla luce della istruzione sommaria compiuta in data odierna,  appare del tutto arbitraria e inattendibile in quanto è emerso chiaramente che nel periodo al quale si riferisce il calcolo del consumo presunto la struttura alberghiera non era ancora funzionante mentre la media dei consumi giornalieri è stata ricavata dall’osservazione dei consumi effettuati in epoca nella quale la struttura era pienamente operativa; - difettando la omogeneità dei periodi di osservazione è del tutto evidente che appare discutibile la correttezza del criterio utilizzato per la determinazione del consumo presunto; - a ciò va aggiunto che la parte istante ha già versato la somma di € 9.000,00 a copertura degli eventuali consumi che dovessero risultare dovuti a causa del cattivo funzionamento dell’apparato misuratore; - sussiste, pertanto il fumus di fondatezza del ricorso; - d’altra parte la rilevata fondatezza prima facie del ricorso suggerisce di provvedere ai sensi del capoverso dell’art. 669-sexies cod.proc.civ. in quanto il tempo necessario alla instaurazione del contraddittorio potrebbe vieppiù pregiudicare l’attuazione del provvedimento di accoglimento avuto riguardo alla forzata inattività nell’esercizio dell’impresa e ai conseguenti danni sullo sviamento della clientela; - p.q.m. - ordina alla S.p.a. Enel Servizio Elettrico di riattivare immediatamente la fornitura di energia sull’utenza in uso a Hotel R. s.a.s. in Cosenza alla via Mediaglie d’Oro s.n. (cliente n. 808 005 557); - fissa per la comparizione delle parti davanti a sé l’udienza dell’undici gennaio duemiladodici alle ore nove e trenta; - assegna all’istante termine fino al quattro gennaio duemiladodici  per la notificazione del ricorso e del presente decreto alla S.p.a. Enel Servizio Elettrico. - Si comunichi con urgenza. - Così deciso addì ventisette dicembre duemilaundici. - Il Giudice - dott. Giuseppe Greco”.
che dopo l’instaurazione del contraddittorio il provvedimento su esteso deve essere confermato in quanto la parte resistente nel costituirsi in giudizio si è limitata a dedurre genericamente l’insussistenza del c.d. “fumus boni iuris” e del c.d. “periculum in mora”, senza allegare alcuna specifica circostanza di fatto idonea a contrastare le ragioni della tutela concessa a mezzo di decreto;  
che è pacifico e non contestato  he le fatture emesse dalla società resistente sulla base di consumi “presunti” sono state tutte tempestivamente contestate;
che, pertanto, appare, “prima facie”, fondata la invocata tutela atipica siccome preordinata ad un giudizio di merito avente ad oggetto l’accertamento della insussistenza dei presupposti della risoluzione del contratto di fornitura per grave inadempimento del somministrato ovvero della illegittimità della diffida ad adempiere intimata dalla parte resistente;
che, conseguentemente, va pienamente confermato il decreto assunto “inaudita altera parte”;
che, in conformità alla disposizione di cui al comma 7 dell’art. 669-octies cod.proc.civ. la parte resistente va condannata al pagamento delle spese del presente procedimento;
che la condanna presuppone la determinazione degli “onorari di difesa” (espressione tratta dalla norma dell’art. 91 cod.proc.civ.);
che secondo il diritto vivente gli onorari per le prestazioni professionali dell'avvocato devono essere liquidati secondo le tabelle che siano vigenti al momento dell’esaurimento delle prestazioni stesse da individuarsi nel momento in cui la causa sia ritenuta in decisione dal giudice (ex plurimis: Cass.civ., Sez. III, 10.06.1991, n. 6557);
che tuttavia la recentissima disposizione di cui al comma 1 dell’art. 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, recante “disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività” pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 19 del 24 gennaio 2012, ha espressamente abrogato “le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico”;
che il comma 2 del citato articolo 9 ha, inoltre, stabilito che “ferma restando l'abrogazione di cui al comma 1, nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del ministro vigilante”;
che la l’applicazione della disciplina dettata dal comma 2 dell’art. 9 del decreto legge n. 1/2012 s’impone in forza del principio “tempus regit actum” trattandosi nella specie di norma di carattere processuale;
che la evidenziata natura processuale della disposizione in parola si desume dal fatto che essa vincola gli “organi giurisdizionali” nell’attività di liquidazione di onorari professionali;
che l’interpretazione restrittiva della norma siccome volta a regolamentare esclusivamente l’attività giurisdizionale nelle controversie aventi ad oggetto la determinazione del “compenso del professionista” ovvero nei giudizi instaurati tra committente e professionista appare incompatibile con la “ratio” complessiva dell’intervento legislativo il quale è a tutta evidenza finalizzato (almeno così risulta dalla lettura della relazione governativa) a determinare uno straordinario impulso allo sviluppo economico del paese e al corretto funzionamento dei mercati nell’ambito del quale la lentezza dei processi, specialmente nel campo della giustizia civile, costituisce un oggettivo vincolo allo sviluppo;
che, quindi, la suddetta disposizione deve intendersi quale principio processuale di carattere generale in quanto vincola la giurisdizione in tutti i processi nei quali si deve provvedere alla liquidazione degli “onorari di difesa”;
che la evidente mancanza di alcuna disciplina transitoria non consente di ritenere ultrattivo il vecchio regime delle tariffe ed obbliga ad applicare il nuovo regime a tutti i processi in corso che non siano già stati definiti anche per quel che riguarda la condanna alle spese processuali;
che la suddetta e radicalmente innovativa disciplina legislativa ha, sin dalla sua entrata in vigore, sollevato drammatici interrogativi in ordine ai criteri cui il giudice è tenuto a conformarsi nel liquidare, alla chiusura del procedimento da lui trattato,  gli “onorari di difesa” da porre a carico – mediante condanna – della parte soccombente in assenza dei necessari parametri stabiliti dal ministro vigilante;
che di tali gravi interrogativi si è immediatamente quanto responsabilmente fatto carico il Consiglio Nazionale Forense il cui Ufficio Studi ha evidenziato come l’assenza dei “parametri” da stabilirsi da parte del Ministro della Giustizia possa determinare “la paralisi dei procedimenti di liquidazione…in sede giurisdizionale”;
che prima dell’entrata in vigore del decreto-legge n. 1/2012 gli “onorari di difesa” venivano liquidati dal giudicante facendo riferimento alle tariffe adottate mediante regolamento del Ministro della Giustizia a seguito di delibera del Consiglio nazionale forense;
che l’espressa abrogazione di tali tariffe non consente, a giudizio di questo giudice, di utilizzare le suddette tariffe in quanto “abrogate” quali “parametri” della liquidazione facendo ricorso a criteri ermeneutici fondati sulla analogia né, tantomeno, quali “parametri” di un giudizio equitativo non ravvisandosi alcuna lacuna del regime voluto dal legislatore che possa legittimare l’impiego dello strumento della interpretazione analogica né di far postulare la “sopravvivenza” delle abrogate tariffe quali “parametri” alternativi cui far ricorso per integrare la regolamentazione legislativa;
che, paraltro, in “subiecta materia” non appare possibile neppure l’estremo ricorso alla “equità” giudiziale la quale per espressa volontà del legislatore potrà esercitarsi nel determinare il preciso ammontare degli “onorari di difesa” nell’ambito dei, presumibilmente, elastici “parametri” che il ministro competente avrà cura di adottare ma non già nell’individuare autonomamente i criteri cui ancorare una qualche determinazione equitativa;
che il principio costituzionale di “indefettibillità della giurisdizione” (cfr. Corte costituzionale n. 361/1998) del quale è corollario il dovere per l’organo investito della risoluzione di una controversia di decidere sollecitamente e conformemente a diritto la questione portata alla sua cognizione non consente all’organo giurisdizionale alcuna dilazione nelle more della emanazione del decreto ministeriale che dovrà determinare i c.d. “parametri” della liquidazione giudiziale (fatta salva, evidentemente, la possibilità in determinate fattispecie di sollecitare le parti a voler esplicitamente attribuire al giudicante un potere di mero arbitraggio sulla determinazione degli “onorari di difesa” da porre a carico della parte tenuta a sopportarli per legge);
che l’eventuale ricorso da parte del giudicante a parametri diversi da quelli espressamente previsti dal legislatore (ove non si traducesse in un mero recepimento delle abrogate tariffe che di fatto finirebbe per vanificare la volontà del legislatore) potrebbe risultare, volta a volta mortificante per il decoro della professione forense e quindi in contrasto con il primo comma dell’art. 36 della Legge fondamentale (tenuto conto che sotto l’attuale regime il professionista non potrà ottenere in sede giurisdizionale la determinazione del compenso in via autonoma nei confronti del proprio cliente, così come avrebbe potuto fare per l’innanzi) ovvero troppo gravoso per l’esercizio del diritto di difesa in giudizio (art. 24 Costituzione); 
che pertanto (ove non si ritenesse possibile, come opina il sottoscritto giudice, postulare la “sopravvivenza” delle abrogate tariffe quali “parametri” alternativi a quelli previsti dalla legge) qualunque soluzione si dovesse scegliere nella determinazione degli “onorari di difesa” essa implicherebbe il rischio concreto di dar luogo a ingiustificate disparità di trattamento tra situazioni simili sul piano processuale avuto riguardo al fatto che qualsivoglia soluzione rimarrebbe fondata in ultima analisi sulla “equità” soggettiva del decidente;
che, in definitiva, le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 9 del decreto legge n. 1/2012, si pongono, a giudizio del sottoscritto giudice, in netto contrasto con il canone di rango costituzionale della “ragionevolezza” (sotto il profilo della intrinseca incoerenza, contraddittorietà ed illogicità rispetto al vigente ordinamento che impone di liquidare senza dilazione gli “onorari di difesa”) laddove non prevedono alcuna disciplina transitoria limitata al periodo intercorrente tra l’entrata in vigore delle norme e l’adozione da parte del ministro competente dei “paramatri” ivi previsti;
che alla evidenziata lacuna legislativa non è possibile porre rimedio attraverso alcuna interpretazione conforme a costituzione;
che la disciplina dettata dai commi 1 e 2 dell’art. 9 del decreto legge n. 1/2012 appare, altresì, in contrasto con l’art. 24 della Costituzione in quanto vulnera il diritto di agire e resistere in giudizio rendendo incerto l’onere delle spese da affrontare nel corso del procedimento;
che la suddetta disciplina viola anche l’art. 3 della Costituzione in quanto attribuisce, di fatto e al di là di alcuna espressa attribuzione del relativo potere, una facoltà ampiamente discrezionale al giudice tenuto a liquidare gli “onorari di difesa”;
che tale facoltà appare priva di alcun ragionevole ancoraggio a parametri certi e controllabili così, peraltro, frustrando, il diritto della parte soccombente di insorgere nei confronti di un provvedimento che risulti, eventualmente, incongruo o esorbitante;
che non è neppure ipotizzabile, che il giudice, cui è fatto obbligo di applicare in via esclusiva “parametri” ad oggi inesistenti, possa omettere di decidere sulla condanna del soccombente al pagamento delle spese processuali ovvero sospendere il giudizio sino alla data in cui sarà emanato il provvedimento ministeriale per la cui emanazione, peraltro, le disciplina impugnata non pone alcun termine, in quanto la sospensione, in un caso non previsto da alcuna norma processuale, integrerebbe, altresì, la violazione del principio di ragionevole durata del processo sancito dall’art. 111, comma, Costituzione;
che è pacificamente sollevabile davanti alla Corte costituzionale questione di legittimità di un decreto-legge;
che da quanto premesso consegue che la decisione relativa alla liquidazione degli “onorari di difesa” vada sospesa e gli atti trasmesssi alla Corte costituzionale, trattandosi di questione rilevante e non manifestamente infondata.
Non può, invero, negarsi che la questione sia rilevante ai fini della decisione in quanto la possibilità per l’organo giurisdizionale di decidere in ordine alle spese del presente giudizio è condizionata alla individuazione di un criterio che, nel permanere in vigore delle norme impugnate, l’ordinamento non appare fornire in alcun modo.
Né può, d’altra parte, sostenersi che la questione sia manifestamente infondata ove si tenga conto, per un verso, dell’impossibilità per il giudice di conformarsi a parametri di liquidazione obbligatori ma inesistenti e, per altro verso, dell’evidente impossibilità di determinare in termini oggettivi e controllabili gli oneri di difesa da porre a carico della parte soccombente.
Va pertanto sollevata, nei termini su esposti, questione di legittimità costituzionale dei commi 1 e 2 dell’art. 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 e sospesa la decisione in ordine alla determinazione delle spese del procedimento da porre a carico della parte risultata soccombente.
P.q.m.
visti gli artt. 669 bis e seg. cod.proc.civ.;
conferma il provvedimento reso in data ventisette dicembre duemilaundici;
condanna la parte resistente al pagamento delle spese del presente procedimento;
visti gli artt. 134 Cost., 1, legge n. 1/1948, 23, legge n. 87/1953;
ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dei commi 1 e 2 dell’art. 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, recante “disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività” pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 19 del 24 gennaio 2012 nei termini di cui in parte motiva;
sospende la decisione in ordine alla determinazione delle spese processuali da porre a carico della parte resistente;
ordina che la presente ordinanza sia notificata, a cura della Cancelleria, alle parti ed al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti dei due rami del Parlamento e che sia successivamente trasmessa senza ritardo alla Corte Costituzionale.
Così deciso in Cosenza addì primo febbraio duemiladodici.
Il Giudice
dott. Giuseppe Greco"

testo tratto da Cassazione.net

lunedì 30 gennaio 2012

Il danno morale non è una quota del danno biologico: è possibile la liquidazione autonoma

La Terza Sezione Civile del Tribunale di Bari, con sentenza resa il 31/10/2011, ha sancito che il danno morale è suscettibile di risarcimento autonomo da quello configurato per il danno biologico, con ciò discostandosi dall'orientamento espresso dalla nota sentenza delle SS. UU. della Cassazione (sent. n°26972 del 11/11/2008) in tema di liquidazione del danno non patrimoniale.
Secondo il Giudice di merito, il danno morale può godere di autonoma liquidazione in quanto lede un aspetto particolare del bene vita, minando l'integrità morale che è un diritto inviolabile della persona, trattandosi della massima espressione della dignità umana che trova tutela giuridica, come si desume dall'art. 2 della Costituzione in relazione all'art. 1 della Carta di Nizza, contenuta nel Trattato di Lisbona, ratificato dall'Italia con legge n°190 del 2/8/2008.
La decisione del Tribunale è stata resa all'esito di un procedimento di risarcimento danni promosso dalla vittima di un'aggressione, per la quale era già stata emessa a carico dei responsabili sentenza penale di condanna per i fatti delittuosi perpetrati.
Da segnalare che, nonostante la previsione di autonoma liquidazione del danno morale, il Giudice di merito non svincola il risarcimento del danno dall'allegazione probatoria e conclude che, pur considerate le condizioni soggettive e la gravità del fatto in concreto, non è possibile procedere al ristoro del danno, in assenza di allegazione sul disagio morale sofferto, per cui il risarcimento liquidato concerne solo la malattia certificata ed il danno biologico dovuto alle conseguenze lesive permanenti.